lunedì 27 gennaio 2014

Il futuro dell'area Thyssen - A.Bracco

Area Thyssen - Torino - lungo il torrente Dora Riparia.

 Potenziali interazioni dell’annunciata trasformazione
urbanistica con il fiume Dora Riparia-A.Bracco

Arch. Arturo Bracco - Ex-dirigente della Regione Piemonte (Direzione difesa del Suolo) e ex-dirigente AIPo.

La Regione Piemonte fa parte della Autorità di bacino del fiume Po.
Autorità di bacino nazionale, nella quale sono rappresentati i Ministeri - con competenze nelle materie ambientali, delle infrastrutture, dei beni storici e paesaggistici, della protezione civile, ed altre – e tutte le Regioni della pianura padana: Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Provincia di Trento, Toscana ed Emilia Romagna.
Ecco alcuni dati relativi al bacino idrografico del Po, il più grande d’Italia. Il bacino idrografico del Po – ossia, il ter-ritorio le cui acque vengono naturalmente convogliate nel Po - ha una superficie di 74.000 chilometri quadrati, dei quali 71.000 sono compresi entro i confini dell’Italia. L’asta del Po ha uno sviluppo di 652 chilometri; vi affluiscono 141 corsi d’acqua. Nel bacino del Po sono compresi oltre 3.200 Comuni. La popolazione insediata nel bacino è di 16 milioni di abitanti. Il bacino idrografico del Po costituisce 1/4 del territorio nazionale e in esso si produce il 40% del prodotto interno lordo.
L’Autorità di bacino del fiume Po ha essenzialmente competenze in materia di pianificazione, di programmazione e di disciplina del territorio ai fini della prevenzione del rischio idraulico e geologico e della tutela ed uso del-le acque. L’Autorità ha predisposto il Piano stralcio per l’assetto idrogeologico – conosciuto con l’acronimo di PAI – che interessa tutti i 3.200 Comuni compresi nel bacino idrografico. Tra questi, tutti i 1.206 Comuni della Regione Piemonte.

Il Piano stralcio per l’assetto idrogeologico, tra l’altro: 1) individua le fasce fluviali a tutela del Po e dei suoi principali affluenti; 2) individua, delimita (ove possibile) e caratterizza la pericolosità dei dissesti sui versanti (frane, conoidi, valanghe) e delle esondazioni e dei dissesti sul reticolo idrografico minore, non interessato dalle predette fasce fluviali; 3) prescrive che tutti i Comuni debbono verificare la compatibilità idraulica e geologica delle pre-scrizioni dei Piani Regolatori, sia a seguito dell’approvazione del PAI, che contestualmente all’adozione di successive Varianti ai Piani Regolatori.
Il PAI detta prescrizioni tassative, immediatamente vincolanti, in ordine agli usi, alle attività ed alle opere con-sentiti e vietati nelle fasce fluviali dei principali corsi d’acqua. Dette prescrizioni alle quali i Piani Regolatori devono essere adeguati con riferimento alle tipizzate condizioni di pericolosità sui versanti, sui fondovalle e sul reticolo idrografico minore.
Le fasce fluviali del Po e dei principali affluenti interessano i territori del Piemonte per quasi 1/3 del loro sviluppo complessivo.
Le aree di laminazione naturale delle portate di piena presenti in Piemonte – ossia, quei territori che vengono naturalmente allagati in occasione di piene gravose – costituiscono presidi naturali a tutela dei territori e delle Regioni di valle, in assenza dei quali le portate ed i livelli idrometrici nei territori del medio e basso Po sarebbero ancora più gravosi.


Le fasce fluviali, a fini di pianificazione, sono state delimitate assumendo a riferimento una portata di progetto, con una probabilità di accadimento di 200 anni. Dunque, una portata non ordinaria, bensì gravosa; ma non si incorra nell’equivoco di ritenere che una piena con tempo di ritorno di 200 anni sia rara o, addirittura, che essa sia destinata a manifestarsi solo ogni 200 anni.
Non è così. Un esempio per tutti: ad Ivrea la Dora Baltea esondò, in destra idrografica, sia nel 1993 che nel 2000, con effetti analoghi, con portate qualificate, en-trambe, come duecentennali.
Le fasce fluviali sono distinte in tre tipi: 1) la Fascia A, che comprende l’alveo inciso del corso d’acqua, nella quale defluisce almeno l’80% della portata di progetto; 2) la Fascia B, esterna alla Fascia A, che comprende tutte le aree allagabili, in funzione delle quote dei terreni e delle opere esistenti, nonché le forme fluviali riatti-vabili in corso di piena; 3) la Fascia C, esterna alle Fasce A e B, che comprende le aree che sarebbero inte-ressate dalla massima piena storica registrata o, in difetto, da una piena con tempo di ritorno di 500 anni; quindi, una piena più gravosa di quella con tempo di ritorno di 200 anni.
Nelle aree comprese nelle Fasce A e B si devono appli-care le prescrizioni del PAI, prevalenti su quelle dei Piani Regolatori.
I territori compresi nella Fascia C devono trovare specifica e puntuale considerazione nei Piani di Protezione Civile e i Piani Regolatori devono compiere i necessari approfondimenti volti a dettare norme di tutela ed uso del suolo idonee ed adeguate a mitigare le condizioni di vulnerabilità e di rischio degli insediamenti esistenti e tali da non aggravare ulteriormente il rischio.
Gli stessi approfondimenti devono, tanto più, essere effettuati in occasione di successive specifiche e pun-tuali Varianti.
Quanto sin qui riferito era necessario per esporre lo stato degli atti di pianificazione che interessano il comparto Thyssen ed altri.



A valle del ponte di corso Regina Margherita le fasce fluviali A e B sono essenzialmente aderenti o comun-que limitrofe all’alveo inciso della Dora Riparia. Di contro, a monte dello stesso ponte le Fasce A e B sono assai estese, in destra e in sinistra idrografica, comprendono meandri riattivabili; nel loro insieme, interes-sano aree naturali e verdi (il parco della Pellerina) e si attestano, sostanzialmente, sul rilevato di corso Regina Margherita. La Fascia C è molto estesa, a monte e a valle del ponte, e interessa vasti insediamenti urbani.
Dunque, sembra doversi dedurre che il ponte di corso Regina Margherita costituisce una interferenza al de-flusso della portata di progetto. Le aree di esondazione naturale a monte concorrono al contenimento dei livelli idrometrici associati alla piena di progetto.
Nel corso della piena del 2000 sarebbe stato interessato lo stesso corso Regina Margherita e nei territori re-trostanti si registrarono allagamenti, con tiranti idraulici localmente modesti.
Successivamente a tale evento furono realizzate opere di difesa.

Il comparto interessato dalla presenza dell’insediamento Thyssen ed altri limitrofi sono compresi in Fascia C.
A seguito dell’entrata in vigore del Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico è stata approvata una Variante al Pia-no Regolatore per il suo adeguamento al PAI, anche con riferimento alle anzidette fasce fluviali. Ove la supposta Variante al Piano Regolatore relativa al comparto occupato dallo stabilimento industriale denominato Thyssen comporti la totale trasformazione urbanistica dell’area, con la costruzione di nuovi insediamenti, con destinazioni d’uso residenziali, commerciali, ricettive, produttive ed altre, ci si deve ragionevolmente attendere che vengano preliminarmente effettuati puntuali approfondimenti in ordine alle effettive, specifiche, concrete e attuali condi-zioni di pericolosità, di vulnerabilità e di rischio sulla zona di intervento e su quelle limitrofe.
Anche con riferimento ai requisiti di idoneità e di adeguatezza del ponte e alle caratteristiche del rilevato di corso
Regina Margherita, alla eventuale presenza di sottopassi e di fornici.
E’ noto che il valore del rischio totale è dato dal prodotto della pericolosità, della vulnerabilità e del valore dei beni socio-economici esposti; ossia, persone e beni materiali.A condizioni di pericolosità immutate, aumentando il valore dei beni socio-economici esposti, aumenta il rischio totale.
Eventi catastrofici e luttuosi si susseguono incessantemente, nel nostro Paese.

I provvedimenti da porre in essere sono essenzialmente di tre tipi: le diverse misure previsionali, di monitoraggio e di protezione civile; le opere strutturali di difesa idraulica e geologica; le prescrizioni e le previsioni degli stru-menti urbanistici, improntate dalla conoscenza, dalla consapevolezza ed orientate alla cautela.

(Arturo Bracco)
Fonte: L'aquilone Legambiente -  Anno 18, n.3, dicembre 2013

Rotta del Secchia - L.Lombroso

GENNAIO 2014: "ROTTA" DEL FIUME SECCHIA E ALLUVIONE NEL MODENESE 23.01.2014
Luca Lombroso - Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari, Università di Modena e Reggio Emilia – Osservatorio Geofisico

La situazione
La situazione meteorologica responsabile delle precipitazioni alluvionali del 17-19 gennaio 2014 in Emilia è quella tipica di altri grandi eventi del passato, con la presenza di una profonda saccatura di origine nord-atlantica.
Il tutto ha preso origine il giorno 17 gennaio 2014 (dopo che già il 13-14 si erano verificate piogge abbondanti in Appennino, anche > 150 mm), con l’approfondimento della depressione atlantica “Helga” verso la Spagna e l’avvicinarsi di un esteso e intenso sistema frontale, preceduto da scirocco. Nell’ambito di tale flusso, il 18 gennaio si è formata una depressione secondaria sul Golfo di Genova, modesta ma determinante per l’Appennino, con un fronte stazionario ondulato fra Sardegna, Corsica e Pianura Padana (ramo caldo sull’Appennino): ne sono derivate intense precipitazioni piovose fin presso il crinale, a carattere convettivo e accentuate dell'interferenza con l’orografia.
Il giorno 19 gennaio sulla Spagna si è formato un altro minimo barico secondario denominato “Ilona” dal Dipartimento di Meteorologia dell’Università di Berlino, che poi si è chiuso («cut off») sulla Sardegna determinando l’ultima fase di piogge diffuse e intense. Finalmente dal 20 gennaio “Ilona” si è allontanata verso il medio Adriatico portando un'attenuazione delle precipitazioni.
17.01.2014, ore 12 UTC: nell'immagine Meteosat (canale visibile) si apprezza l'estesa copertura nuvolosa sull'Italia centro-settentrionale, prodotta dall'intenso flusso mite e umido da SSW. Forti precipitazioni si abbattono tra Liguria, alta Toscana e Appennino Tosco-Emiliano (intensità fino a circa 15 mm/h a Lagdei, alto bacino del T. Parma), mentre l'effetto-föhn rasserena i cieli su parte del versante adriatico (fonte: Eumetsat).

Le precipitazioni
Sulla pianura modenese e reggiana le piogge non sono state particolarmente abbondanti. A Modena-Osservatorio Geofisico, 22.9 mm il 19 gennaio e complessivamente nell’episodio 44.5 mm fra il 17 e il 19; finora sono 64.7 i millimetri caduti nell’intero mese, già superiori alla media mensile (33 mm nel periodo 1981-2010) ma non certo straordinarie (nel 2013 furono superiori, 84.6 mm). Inconsueto però, per la stagione, il temporale osservato nella serata di sabato 18 gennaio, con tuoni e fulmini durante un forte rovescio di pioggia, come in piena estate. Le statistiche sui temporali sono scarse e incomplete, comunque sia l'attività temporalesca è veramente inusuale in gennaio, a Modena si contano solo 9 episodi nel periodo 1876-2005.

A Reggio Emilia la nuova stazione meteorologica presso l'Università ha registrato 54.8 mm in tre giorni con un massimo di 29.7 mm il 18. Anche qui è stato osservato il temporale della sera di sabato 18 gennaio.

Se le piogge in pianura non giustificano la grande piena fluviale sviluppatasi nel Modenese, quelle dell’Appennino invece risultano particolarmente abbondanti e straordinarie, soprattutto per il periodo dell'anno. Questo a causa della configurazione sinottica, che accentua le precipitazioni sui crinali appenninici per il sollevamento orografico forzato – sul lato toscano - dei flussi perturbati meridionali, carichi di umidità raccolta nel lungo viaggio dello scirocco sopra al Mediterraneo.
In questi casi, con flusso da SSW alle quote medio-basse della troposfera, le precipitazioni più importanti riescono a spingersi anche oltre la cresta dell'Appennino, a interessare le alte valli emiliane, per poi decrescere rapidamente scendendo verso la Pianura Padana, posta sottovento al flusso umido mediterraneo. Peraltro, fattore determinante e anche questo inconsueto per gennaio, l'isoterma 0 °C elevata e la conseguente caduta di neve solo sulle cime più alte dell’Appennino Tosco-Emiliano (come all'osservatorio del Monte Cimone, 2165 m). Se le sciroccate e la pioggia in gennaio non sono un fatto nuovo, specie negli ultimi anni, in Appennino quello che colpisce è il perdurare a lungo del flusso da scirocco.

La stazione di Civago (RE) nel bacino del Secchia (Rete
ARPA EMR) ha registrato 163.6 mm il giorno 18, 396.2 mm in 3 giorni (17-19 gennaio), 536.2 mm in 7 giorni (13-19 gennaio) e ben 663 mm da inizio gennaio 2014. Tanto per dare un’idea, nell’alto bacino del Secchia è piovuto in 20 giorni quanto di norma piove a Modena in un anno!

Riepilogo delle precipitazioni del gennaio 2014 in alcune località tra pianura e Appennino Emiliano. Nel bacino del Secchia, la stazione di Civago ha rilevato 396 mm in 3 giorni, 536 in 7 giorni e 663 mm da inizio gennaio fino al giorno 19, mentre, nel bacino del T. Parma, il pluviometro di Lagdei ha raccolto rispettivamente 413, 603 e 838 mm
(fonte dati: ARPA EMR e Università di Modena e Reggio Emilia).
(1) alcune lacune
(2) probabili sottostime
 
Andamento delle precipitazioni orarie e cumulate a Lagdei (1254 m, Appennino Emiliano) dal 13 al 20 gennaio 2014: un primo episodio ha scaricato 151 mm di pioggia in meno di 24 ore tra il 13 e il 14 gennaio, contribuendo alla totale saturazione dei suoli. La successiva perturbazione giunta nel pomeriggio del giorno 16 ha dato avvio a un più lungo e importante episodio piovoso, conclusosi nelle prime ore del 20 con un ulteriore apporto di 468 mm d'acqua in 4 giorni. Il totale del periodo 13-17 gennaio ammonta a 620 mm, quantità straordinaria per la stagione e che, in concomitanza con le temperature elevate e la caduta di pioggia anziché neve sulla quasi totalità dei bacini appenninici, ha determinato le notevoli onde di piena dal T. Enza al F. Reno, ma in particolare lungo il Secchia (fonte dati: ARPA EMR).


Un primo confronto con le grandi alluvioni del passato mette in evidenza come le precipitazioni sull'alto bacino del Secchia siano paragonabili, o perfino superiori, a quelle degli eventi del novembre 1966, settembre 1972 e settembre 1973.
Ad esempio tra il 3 e 7 novembre 1966 risultano 276.2 mm a Piandelagotti, poco inferiori alla quantità caduta dal 13 al 19 gennaio 2014 (286.2 mm). A Lagdei (PR) il totale di 7 giorni nel gennaio 2014 (dal 13 al 19) è di 601 mm, mentre nel novembre 1966 la vicina di Rimagna vide cadere 341 mm, sempre in un periodo di 7 giorni (massimo in 24 ore di 150 mm il 4).
Decisamente inferiori, invece, le precipitazioni nel medio bacino e sulla pianura, dove nel 1966 gli apporti furono assai più abbondanti.

Dunque, a un primo sommario esame, le piogge di questo episodio alluvionale in Emilia risultano effettivamente straordinarie, tanto più per il mese di gennaio in cui in passato, sempre da una prima verifica, non risultano altri eventi paragonabili nel bacino del Secchia.

L’argine rotto e l’area allagata
La rottura dell’argine destro del Secchia è avvenuta poco a nord di Modena, in località San Matteo, a 200 m dal viadotto TAV e poco distante dal ponte del “Passo dell’Uccellino”. La rottura è stata riscontrata alle h 06:30 di domenica 19 gennaio da un passante, che ha dato l’allarme. Subito l’acqua ha invaso la vicina SS 12 nazionale "Canaletto" (il nome ricorda come la strada si trovi nei pressi di un antico canale). A seguire si è allagata la località Albareto di Modena, e in successione i paesi di Sorbara e Bastiglia, ma in particolare la cittadina di Bomporto (10.000 abitanti, interamente evacuati), a circa 15 km dall'argine rotto e posta non sul fiume Secchia ma sul Panaro! Quindi l’acqua ha raggiunto alcune frazioni di San Prospero di Modena e di Medolla (località già colpite dal terremoto del maggio 2012) e alcune zone di Camposanto nella giornata di lunedì 20 gennaio. Martedì 21, allagamenti hanno interessato parte di San Felice sul Panaro e di Finale Emilia, distanti oltre 30 km dal punto di rottura. L’area allagata è di oltre 400 km2 (volume d'acqua stimato in circa 20 milioni di m3), con battenti idrici fino a 1,5 – 2 m anche in aree urbane.

Qui di seguito, alcune vedute aeree della breccia sull'argine del Secchia e delle conseguenti inondazioni nella bassa pianura modenese, riprese il 20 gennaio 2014 da Roberto Ferrari (Protezione Civile Modena e Aeroclub di Marzaglia).
 
Modena - San Matteo, la rottura dell'argine destro del Secchia
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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La rottura dell'argine destro del Secchia
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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L'area commerciale-industriale di Bomporto, cittadina di 10.000 abitanti tra le più penalizzate dall'alluvione, e interamente evacuata
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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Campagne inondate tra Bomporto e Albareto
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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Campagne inondate tra Bomporto e Albareto
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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Inondazione dell'area golenale del Secchia a Campogalliano, presso Modena
(f. R. Ferrari, Protezione Civile Modena - Aeroclub Marzaglia)
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Elenco delle principali inondazioni dell'ultimo secolo nel Modenese, e stima degli ettari di territorio allagati dal Secchia e/o dal Panaro (fonte: Moratti & Pellegrini, Società dei naturalisti e matematici di Modena). L'episodio del gennaio 2014 (non incluso nella tabella),
 con oltre 40.000 ettari invasi, si pone come il più gravoso, ma per una stima più precisa della magnitudo dell'evento, ancora in corso, occorrerà attendere le prossime settimane.
Alluvione, cambiamenti climatici ed eventi estremi
Come sempre è difficile attribuire la causa di un singolo evento atmosferico direttamente ai cambiamenti climatici, tuttavia è indubbio che questo episodio si pone in linea con gli scenari futuri di aumento dei fenomeni estremi, inoltre in un clima invernale normale, con precipitazioni nevose per lo meno dalle quote collinari, l’alluvione non si sarebbe verificata.

D'altronde, quanto a temperature, per il momento gennaio 2014 a Modena rivaleggia con il gennaio 2007, che fu il più caldo dal 1830 con una media mensile di 7,2 °C. Gli ultimi giorni del mese dovrebbero essere più freddi, ma non tali da cambiare in modo significativo tale situazione.


FONTE:
http://www.nimbus.it/eventi/2014/140123alluvioneModenese.htm

venerdì 24 gennaio 2014

Frana di Andora - M.Serra


USACE - Science, technology, engineering, mathematics...

http://www.youtube.com/watch?v=Vbct32NRPow&feature=share&list=UUBkG21sx8Wd-EDI4ue1Vxdg

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Dragare i fiumi?

Dragare i fiumi? Sbagliato. Lo conferma un giovane studioso 

 

 

 


In tanti durante le ultime recenti emergenze alluvionali hanno chiesto (e insistito sulla necessità) di dragare i fiumi per evitare disastri. Ma è davvero questa la soluzione per aumentare la portata d’acqua di tanaro e Bormida? Chiaccherata informale con Andrea Mandarino, 21 enne appassionato e studioso di dinamica fluviale, che dal 2007, tiene annualmente i corsi di aggiornamento pesca per le Guardie Ecologiche Volontarie (GEV) provinciali. Nell’ambito della Fiera Solidale 2011, ha tenuto una conferenza proprio dal titolo: “I fiumi italiani e le calamità artificiali. Le alterazioni antropiche della dinamica fluviale su scala di bacino”.
Come viene considerato il fiume al giorno d’oggi?
Il fiume viene visto spesso dalla gente comune come “un secchio” oppure “un tubo”. In realtà, in anni recenti, si è passati da una visione puntuale ad una visione generale, ovvero a scala di bacino. Il fiume non è solo un corso d’acqua ma esso intrattiene innumerevoli relazioni con gli ambienti di ripa, la piana alluvionale, i versanti della testata di bacino ecc. Non bisogna considerare il fiume solo come una massa d’acqua che scorre tra le sponde. Quello che succede al suo interno non è unicamente influenzato da ciò che accade in alveo, ovvero nel solco inciso. Tutti i processi che avvengono nel bacino idrografico, quindi, vanno poi a ripercuotersi sull’“asta” fluviale principale.
E l’uomo che tipo di rapporti intrattiene con questo sistema?
Gli ambienti fluviali sono stati profondamente modificati, sia nel territorio alessandrino che in tutta Italia, dalle alterazioni antropiche, soprattutto dagli Anni 50 del boom economico. Gli interventi dell’uomo sui fiumi sono di due tipi: si parla di modificazioni dirette ed indirette. Le prime riguardano le alterazioni tra le due sponde dei corsi d’acqua (escavazioni, dighe, prismate ed altri interventi di “rettificazione”). Le seconde comprendono modificazioni che avvengono all’interno del bacino fluviale, ma non nell’alveo (ad esempio la costruzione di una gigantesca area industriale o commerciale, che porta all’impermeabilizzazione di ettari ed ettari di superficie destinata all’agricoltura o alla foresta).
L’uomo tende a progettare infrastrutture il più possibile rettilinee, mentre la natura tende ad essere sinuosa. Per guadagnare terreno utile all’agricoltura e all’edilizia, si accorcia il tracciato fiumi, tagliando le curve e stabilizzando le sponde attraverso muraglioni (tipici dei centri urbani come Alessandria), prismate e massicciate (grosse rocce disposte lungo le sponde concave per evitare che l’acqua battente porti all’erosione della sponda stessa). Il problema, tuttavia, è molto grave. I meandri naturali, infatti, tendono a ridurre gradualmente la velocità dell’acqua. Con le rettificazioni, invece, il tracciato del fiume è molto più corto e l’acqua non riesce a rallentare, anzi aumenta il suo impeto. Questo porta ad una maggior erosione delle sponde e del fondo. Si è così passati da territori fluviali caratterizzati da un’ampia fascia alluvionale e di meandrizzazione, a grossi “canaloni” centrali che hanno lasciato terreno libero per coltivare o edificare. Molto spesso si progettano imponenti argini e si arriva a costruire nelle zone adiacenti ad essi. Gli Amministratori e i Politici lo sanno bene che l’argine non è una divinità, non è eterno e non garantisce la sicurezza assoluta: è fatto di terra e serve a contenere una certa portata idrica, ma appena sormontato dall’acqua è destinato a collassare totalmente.
Si sente spesso dire che i fiumi dovrebbero essere dragati. Ma è davvero così?
Il fiume è una sorta di “nastro trasportatore”. Nel suo tragitto si porta dietro innumerevoli cose: ghiaia, sostanze nutrienti, organiche, inorganiche ed esseri viventi, fondamentali per l’auto depurazione del corso d’acqua stesso. Prende la ghiaia nel tratto montano, caratterizzato da una forte erosione, e la deposita verso valle. Tutto questo meccanismo è stato sconvolto dall’uomo, non solo tramite le rettificazioni, ma anche attraverso le dighe e le escavazioni. Inoltre, negli ultimi decenni, il fenomeno dell’abbandono della montagna da parte dell’uomo ha fatto sì che i boschi prendessero il sopravvento, impedendo, con le loro radici, il rilascio di quell’apporto di ghiaia e roccia erosa dalla pioggia che c’era stato fino a quel momento.
Insomma, gli interventi antropici degli ultimi 50 anni hanno causato una notevole diminuzione di ghiaia. Quando la gente comune dice che i letti dei fiumi si sono alzati e per questo vanno dragati, in realtà, commette un grosso errore. Infatti i rilievi topografici dimostrano l’esatto contrario, ovvero che i nostri fiumi sono in carenza di ghiaia.
Il fiume, avendo energia, deve trasportare qualcosa, ma si ritrova con una velocità ed un impeto ancora maggiori. Non potendo prendere materiale dalle sponde, lo prende dal fondo. Tuttavia ormai anche i letti dei fiumi scarseggiano di ghiaia: il “materasso alluvionale” di molti corsi d’acqua italiani è quasi inesistente. Le opere di consolidamento dei ponti e dei loro piloni o lo sprofondamento delle prismate sono una preoccupante spia d’allarme sull’abbassamento del letto dei fiumi. La tendenza generale è quella di un aumento della velocità dei corsi d’acqua, che hanno sempre meno materiale al loro interno in grado di smorzarne l’impeto.
Le escavazioni, invece, che ruolo hanno avuto?
Hanno portato ad un abbassamento generale degli alvei. Le escavazioni, quindi, non bloccano il “nastro trasportatore” ma tolgono materiale allo stesso, causando una sua ridistribuzione e il sopracitato sprofondamento.”
E le dighe?
Causano l’interruzione del flusso, dato che la ghiaia proveniente da monte si accumula e sedimenta sul fondo del bacino artificiale. Questo provoca due fenomeni di rilievo: un innalzamento del letto del fiume nella zona a monte della diga e una fortissima erosione a valle della stessa, dato che non avendo più materiale da trasportare, l’acqua ha con sé molta più energia. Ultimamente molte dighe necessitano di interventi di consolidamento nel lato di valle, proprio perché manca loro l’appoggio. Altra conseguenza dovuta alla costruzione delle dighe, è l’eccessivo prelievo idrico che sconvolge le portate in ogni momento dell’anno. Questo crea un ambiente totalmente nuovo, oltre ad interrompere la risalita dei pesci. Sfatiamo un mito: il detto popolare, ormai divenuto leggendario, “ecco, è arrivata l’alluvione perché hanno aperto le dighe” è assolutamente infondato e privo di logica. Le dighe di alta montagna sono quasi tutte costituite da uno sbarramento verticale e da pochi scaricatori. Non è possibile che si possano aprire del tutto. Inoltre appena c’è il pericolo di alluvione, il Prefetto ordina la cessazione di qualsiasi attività nei loro pressi. E infine, chi gestisce un impianto idroelettrico non ha nessun guadagno nell’aprire la sua diga e nel perdere la preziosa materia prima. Anzi.
Quali sarebbero i rimedi per limitare i danni delle alluvioni?
La più grande opera di cui l’Italia ha bisogno è il riassetto idrogeologico. Ci va una maggiore cura nella prevenzione e dunque un’applicazione effettiva delle leggi esistenti. Le piene dei fiumi non si possono evitare e dobbiamo imparare a convivere con loro, adottando strategie specifiche. Stop alla cementificazione e avvio di una pianificazione territoriale efficace, allontanamento degli argini dalle sponde, costruzione di aree di laminazione e casse d’espansione, stop alle escavazioni e alle costruzioni in aree golenali. Con questi semplici accorgimenti si potrebbero limitare innumerevoli danni a cose e persone che, immancabilmente, ormai si ripresentano ad ogni piena di una certa portata.

FONTE: http://www.lapulceonline.it/2012/03/11/dragare-i-fiumi-sbagliato-lo-dice-uno-studioso/

Non diteci che nessuno sapeva (Messina) - A.Tozzi

Non diteci che nessuno sapeva
di MARIO TOZZI (La Stampa, 3/10/2009)


E’ proprio un Paese bizzarro l’Italia, pensate che d’autunno piove - qualche volta a lungo -, i fiumi straripano e le tempeste mangiano le spiagge. E pensate che, se avete costruito nel letto di un fiume, ci sono buone probabilità che la vostra casa venga spazzata via per colpa delle alluvioni. Un fenomeno nuovo, si potrebbe pensare, mai segnalato finora, specialmente nel Mezzogiorno: chi potrebbe immaginare che intere colline d’argilla franino a mare portandosi con sé case e persone? Non serviva un geologo, bastava un archivista che avesse rovistato nei documenti comunali.

Per sancire come le frane siano un fenomeno comune, esattamente come le mareggiate, nel Messinese: le ultime quattro vittime nel 1998, appena a Nord della città. Ma in Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, di media, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2009, si sono riscontrate addirittura oltre 15 mila gravi frane. E non solo frane, ma anche alluvioni (oltre 5 mila le gravi, sempre dal 1918), spesso intimamente connesse agli smottamenti. Questo nonostante oggi la protezione civile sia molto più efficiente di solo venti anni fa. Le frane sono un fenomeno naturale, ma non lo sono le migliaia di morti né le azioni dell’uomo che le innescano al di là delle condizioni naturali.

Tutto questo era ben noto fino dal tempo della commissione De Marchi, che fotografò, per la prima volta in modo organico (nel 1966), il dissesto idrogeologico del territorio italiano in otto volumi in cui si suggerivano anche alcuni interventi indispensabili e ritenuti urgenti fino da allora. Sono passati decenni e c’è ancora chi si stupisce oggi. Non solo: la situazione è stata aggravata dalla massa assurda delle nuove costruzioni, da centinaia di chilometri di strade, da disboscamenti insensati e dagli incendi mirati, dai condoni edilizi che espongono al rischio migliaia di cittadini che hanno scelto deliberatamente di delinquere. Ma come volevate che finissero quelle case, magari abusive, che strozzano i letti dei corsi d’acqua, come dovevano finire i viadotti troppo bassi, le strade e il cemento che hanno sclerotizzato il territorio?

Eppure - a differenza dei terremoti - le frane possono essere previste e i nomi sono già storia: Ancona (1982), il Monte Toc al Vajont (1963), la Valtellina (1987), Niscemi (1997), Sarno (1998), l’autostrada del Brennero (1998), Soverato (2002) e così via disastrando. Secondo il Cnr il totale del territorio a rischio di frane, o comunque vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, in Italia, è pari al 47,6%. Quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1600 in 75 anni), dove 230 Comuni su 551 sono a rischio di smottamento. La superficie vulnerabile per frane e alluvioni è, in Campania, pari al 50,3% del territorio regionale.
Il Trentino sfiora l’86% - in vetta alla graduatoria -, le Marche arrivano all’85% e il Friuli è ben sopra il 50%: resta da chiedersi come mai però nel Mezzogiorno quel rischio potenziale si traduce più spesso che altrove in catastrofe, con Basilicata, Calabria e Sicilia che vanno comunque oltre il 60% del territorio a rischio. Ma la risposta la conosciamo già: l’incuria del territorio è qui diventata prassi quotidiana, perché gli amministratori preferiscono costruire un’opera pubblica, anche se inutile, purché si veda e porti consenso: chi si accorgerà invece di una manutenzione ordinaria, spesso invisibile, del territorio?

Per non parlare dell’incivile tolleranza all’abusivismo o dell’ignoranza di qualsiasi principio fisico che informi il territorio: che ne sanno gli amministratori che una frana è uno spettacolare esempio di un fenomeno geologico del tutto naturale, che porta al trasferimento di materiale dall’alto in basso grazie alla forza di gravità? E che le cause generali delle frane sono molte, ma, in tutto il mondo, l’intervento dell’uomo gioca un ruolo fondamentale? Fra qualche giorno nessuno ricorderà i morti di Messina e si continuerà a inseguire il sogno di un ponte inutile che renderà ineluttabile il dissesto idrogeologico, quando non vedrà compromessa addirittura la stabilità complessiva di un intero settore della penisola. Stornando risorse che dovrebbero essere spese per salvare vite e non per inseguire follie faraoniche.

Il grande sacco d'Italia - B.Spinelli

FONTE: http://www.lastampa.it/2009/10/04/cultura/opinioni/editoriali/il-grande-sacco-dellitalia-vAqoFRHXOgnkusozbFF3DK/pagina.html?exp=1
Editoriali

Il grande sacco dell'Italia

Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l'Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.

E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.

Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.

Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.

È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.

Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po' come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del '500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.

L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.

Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D'un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c'è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina. 

La formula dell'insicurezza - L.Franzi

http://www.lastampa.it/2009/10/10/cultura/opinioni/l-editoriale-dei-lettori/la-formula-della-insicurezza-D2ml8Wob9waJsUrZL8T2AJ/pagina.html


L'editoriale dei lettori

La formula della insicurezza

Tra le cause preparatorie del disastro di Messina bisognerebbe mettere il «composto del P4». Non una reazione chimica, ma amministrativa

Nell’editoriale di Barbara Spinelli sulla Stampa del 4 ottobre scorso titolato «Il grande sacco d’Italia», manca, tra le cause indicate come preparatorie al recente disastro del Messinese, una causa che, sotto gli occhi degli amministratori, è all’origine di un disastro «legalizzato».

È il fattore che io chiamo, da amministratore, il «composto del P4»: progetto-pecunia-piani-promessa. Non ha nulla a che fare con alcuna reazione chimica, né ad alcuna associazione segreta. Se di composto si può parlare, è più amministrativo che altro, ma le similitudini con la chimica sono sorprendenti. Gli elementi che lo compongono si consolidano intorno a un nucleo centrale, rappresentato da un progetto (un centro commerciale, un’area industriale, un quartiere abitativo), sostenuto o sostenibile da un finanziamento, pubblico o privato, magari dalla CE o inserito in uno dei numerosi Programmi (un’altra P) che popolano la pubblica amministrazione.

Inutile dire che ne vengono valutate positivamente le ricadute sull’occupazione, sulla promozione del territorio, sull’economia ecc. La sicurezza è «uno» dei fattori discussi, ma la sua valenza è generalmente mitigata dalla incertezza del «dove» una frana potrà colpire, l’«orizzonte temporale» in cui potrà verificarsi, la quantificazione del possibile danno. Gli occupati, i guadagni, lo sviluppo sono sempre apparentemente certi.

Di fronte alla possibilità che effettivamente il fattore «sicurezza» possa mettere in discussione l’intero impalcato, il composto piano-progetto-pecunia diventa instabile. E al composto si aggiunge un elemento stabilizzatore, ovvero la Promessa, formulata da qualche architetto o avvocato che stabilizza gli animi (ma non la frana): si dispone di monitorare, si prescrivono gli accorgimenti strutturali che si renderanno necessari. Le coscienze sono tacitate e la deliberazione finale è scontata. Stabilizzata in modo perverso dal composto P4, la p.a. ritiene il progetto «opportuno». Salvo frana.

* ingegnere idraulico, Torino

Quanta Emilia c'è sott'acqua? - A.Cardone


Quanta Emilia c’è sott’acqua? La mappa interattiva dell’alluvione, dei canali e dei lavori in corso

mappa_interattiva_alluvione_lavoriIl modo migliore per comprendere la vastità del dramma che vive l’Emilia è osservare quanto è grande ed estesa l’area allagata, che copre mezza provincia di Modena e si allarga per via del coinvolgimento dei canali di scolo nel far defluire l’acqua esondata.  Sott’acqua ci sono ancora paesi, frazioni, fabbriche, coltivazioni. I danni sono incalcolabili.
Ma si sta lavorando dappertutto per rimediare: ecco dunque la mappa riassuntiva della situazione attuale e dei lavori in corso.

Così, nella giornata di venerdì 24 gennaio 2014, si presenta l’area alluvionata nel sesto giorno di emergenza.
mappa_interattiva_alluvione_lavori
Nella mappa sono evidenziate la situazione attuale degli allagamenti, i lavori messi in atto nei vari Comuni per bloccare gli effetti dell’alluvione e i corsi dei canali di scolo che stanno tentando di raccogliere le acque del Secchia per convogliarle nel Panaro presso il cavo Napoleonico di Bondeno: i canali, colorati, porteranno le acque verso il Po quindi a mare.
Il punto evidenziato con il simbolo giallo, in basso a sinistra, è a San Matteo, dove il Secchia ha rotto l’argine destro domenica scorsa. Nella mappa si vede benissimo come poi da lì l’acqua del fiume si defluita verso destra  allagando circa 60 km quadrati di paesi e campagne.
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FONTE: http://sulpanaro.net/2014/01/24/quanta-emilia-ce-sottacqua-la-mappa-interattiva-dellalluvione-dei-canali-e-dei-lavori-in-corso/